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Médée, primo saggio del giovane Corneille nell’ambito della tragedia, quasi un lavoro preparatorio ai successivi Cid, Horace e Polyeucte, con i quali si imporrà quale indiscusso protagonista del Grand Siècle. Si è concordi nel riconoscere in Seneca la fonte principale della sua Médée, come egli stesso riconosce nell’Examen della tragedia. Tuttavia, contrariamente a Seneca, egli sfuma il lato demoniaco di Medea, restituendone l’immagine euripidea di sposa ferita, che solo sul finale acquisisce un lato mostruoso, benché le sue azioni vendicative appaiano più comprensibili agli occhi degli spettatori, dati gli intrighi iniqui di Giasone, sposo infedele, e dei sovrani di Corinto di cui è vittima. Giasone è la misera incarnazione della vanità e dell’orgoglio, e Creusa, figlia del re di Corinto, è così impertinente da chiedere, e quasi pretendere, la veste regale di Medea, dopo che ne è stato decretato l’esilio. Corneille riprende alcuni ingredienti spettacolari del teatro senechiano, rappresentando la morte dei sovrani di Corinto sulla scena, ma si astiene dal visualizzare l’infanticidio, sconveniente per il teatro delle bienséances, evocandolo, quasi sterilizzato, con soli quattro versi nel discorso ultimo di Medea a Giasone. Infine, un epilogo originale rispetto alla tradizione: un suicidio di una certa opacità, silenzioso e privo di qualsiasi solennità.
Cura e traduzione di Agnese Silvestri
Cosa accade se a suscitare una passione inesauribile per un essere dalla morale riprovevole è un uomo piuttosto che una donna, come era stato il caso della Manon Lescaut dell’abbé Prévost? È questo interrogativo a innescare in George Sand, allora coinvolta nel turbinio di emozioni della sua storia travagliata con Alfred de Musset, la scintilla creativa di Leone Leoni (1835). Nascono così i personaggi di Juliette e di Leone, lei incantevole figlia di un gioielliere di Bruxelles, cresciuta nella fatuità e nella frivolezza riservate alle ragazze di buona famiglia nei primi decenni dell’Ottocento; lui fascinoso nobile veneziano, dedito al gioco d’azzardo e alla truffa, pieno di debiti ma dalla vita sociale brillante, grandiosa e debosciata. Non lo nota neanche, Juliette, incontrandolo per la prima volta sulla propria strada. Ma l’ingenuità della prima giovinezza, la fondamentale immoralità di un’educazione che le toglie, invece di assicurarle, consapevolezza di sé e del mondo, la bonaria superficialità della famiglia dell’eroina, che non manca di coltivare ambizioni di ascesa sociale, la precipitano in una passione tanto rovinosa quanto inebriante. Trascinata da Leone in una tormentosa peregrinazione tra luoghi diversi e situazioni sempre più avvilenti, si aprono per Juliette abissi di umiliazione, ma anche ambigui spazi di libertà e di rivolta.
Noto in particolare per i suoi due romanzi Erewhon e The Way of All Fresh, Samuel Butler è stato uno scrittore inglese di epoca vittoriana. Personalità poliedrica, oltre che scrittore, fu pittore, musicista, fotografo, filosofo, critico e storico dell’arte, “divulgatore” scientifico, e perfino allevatore di pecore. “Controverso” è l’attributo più ricorrente quando si cerchi di definire chi, come lui, si è compiaciuto di autoproclamarsi un outsider. E di una controversia tratta questo saggio: quella con Charles Darwin, il “padre della teoria dell’evoluzione”.
«Sì, non fidatevene, perché c’è un corbaccio rampante abbellito con le nostre piume, che con il suo “cuore di tigre avvolto in una pelle d’attore” presume di essere altrettanto capace quanto il migliore di voi di infarcire versi sciolti, ed essendo un factotum senza pari si ritiene nella sua presunzione l’unico Scuoti-scena del paese…» è uno tra i brani più citati dagli studiosi di Shakespeare, che vedono nell’astio del suo autore la prova del successo e della fama del drammaturgo di Stratford sin dagli albori della carriera londinese. Siamo nel 1592, il poligrafo di successo Robert Greene, negli ultimi istanti di vita, scrive il suo Groats-worth of Witte Bought with a Million of Repentance (Un soldo di senno al prezzo di un salatissimo pentimento), un testo di grande varietà di generi e registri nel quale la novella tipicamente rinascimentale costituente il grosso della narrazione – riscrittura in chiave parodica della parabola del figliol prodigo con protagonisti un usuraio, i suoi due figli e una cortigiana senza scrupoli – lascia spazio ad alcune pagine in cui l’autore, togliendosi la maschera fittizia e rivolgendosi direttamene ad amici e colleghi – “A quei gentiluomini, conoscenze di vecchia data (Christopher Marlowe, Thomas Nashe, George Peele?), che dedicano il loro ingegno a comporre drammi, R. G. augura un migliore esercizio e la saggezza per prevenire i suoi stessi eccessi” –, esce allo scoperto per parlare di sé stesso e della propria dissipatezza. Al di là dell’aspetto penitenziale espresso sin dal titolo del libello, queste parti di Groats-worth of Witte rivestono un notevole valore dal punto di vista storico-letterario perché offrono uno spaccato del teatro elisabettiano dal suo interno, riportando precise notizie su come lavoravano i drammaturghi, su quale era il loro rapporto con gli attori, sul loro ruolo all’interno delle compagnie, sui loro problemi di carattere finanziario… Si tratta di informazioni importanti per la conoscenza di quel mondo che, al di là di tutto, vista la scarsità di documentazione fin qui pervenutaci, è sempre vissuto in un’indeterminatezza mista a finzione.
Cura e traduzione di Vincenzo De Santis
Nei primi di gennaio del 1672, la compagnia dell’Hôtel de Bourgogne rappresenta per la prima volta l’attesa tragedia turca di Racine, Bajazet. L’interesse suscitato dall’opera presso i contemporanei appare in larga misura legato all’ambientazione orientale, in un periodo in cui i soggetti turchi sono tornati di moda anche grazie alle politiche internazionali del Re Sole. La trama si ispira alla vicenda dell’omicidio di Bayazid (1635), fratello dell’imperatore di Turchia Morad IV (1612-1640), morto da circa trent’anni al momento della trasposizione drammatica di Racine. Nel 1657, una ventina d’anni dopo la morte di Bayazid, Jean Regnault de Segrais aveva pubblicato il secondo volume delle sue Nouvelles françaises. La novella sesta, Floridon, sviluppava gli aneddoti narrati dai diplomatici di corte a cui Racine afferma di essersi ispirato per la stesura di Bajazet. Le numerose somiglianze tra i due testi mostrano tuttavia come la novella sia la fonte principale della tragedia, benché Racine non ne faccia mai menzione. Anche se le similitudini con la pièce sono molte, Racine modifica elementi fondamentali della storia, insistendo sul tema della gelosia e operando sulla novella come se si trattasse di una trama tratta non dalla cronaca recente ma dal mito o dalla Storia. Applicando l’assunto aristotelico secondo cui la tragedia è di maggior effetto quando l’omicidio è perpetrato in seno alla famiglia, Racine ripropone lo schema dei fratelli nemici, già sperimentato in opere precedenti. Rispetto all’ordine che vige nella Costantinopoli di Segrais, il poeta mette in scena una corte che si appresta ad affrontare e reprimere un colpo di Stato: riscrivendo la novella, Racine intreccia in Bajazet il tema della gelosia furiosa e quello del dispotismo orientale, in una tragedia che si distingue dal resto del corpus dell’autore per l’argomento scelto, per l’originalità del luogo tragico, il serraglio, e per le particolari strutture drammaturgiche e metrico-sintattiche.
Cura e traduzione di Alberto Ausoni
Il 19 novembre 1679, supportata da un’abile campagna pubblicitaria, al teatro di rue de Guénégaud va in scena la commedia La Devineresse, ou Les faux Enchantements. Tutta Parigi vi accorre, decretandone un successo e un ammontare d’incassi senza precedenti. La pièce, ideata da Thomas Corneille, fratello dell’illustre Pierre, e dal gazzettiere di Francia Jean Donneau de Visé, richiamava un inquietante soggetto di attualità, alludendo a una realtà di indovine, avvelenatrici e procuratrici di aborti che in quegli stessi anni infestavano Parigi. Tutta la capitale ne era al corrente, poiché la faccenda coinvolgeva le varie classi della società e alte personalità della corte, al punto da diventare un affare di Stato oltremodo seccante per un regno votato all’ordine e alla grandezza. Nel pieno del processo contro la spietata Catherine Monvoisin, nota a tutti come la Voisin e nodo strategico dell’“Affare dei veleni”, sul palcoscenico del teatro di rue Guénégaud si snodano in cinque atti i trucchi ingegnosi e gli espedienti magici messi in opera da una fattucchiera di nome Jobin, con la complicità di domestiche e assistenti, al fine di raggirare e soddisfare le più singolari richieste di una clientela di poveri diavoli e di esponenti del bel mondo parigino. Un ventaglio di comiche situazioni, tanto più che la scaltra Jobin è affidata alle doti attoriali di La Grange, in un ruolo en travesti. Se la clientela che sfila dall’indovina rispecchia, nei toni di una parodia, quello sciame di marchese, cavalieri e contesse che si recavano in incognito nelle sordide stanze della Voisin, non vi è traccia, tuttavia, di quell’atmosfera d’inquietudine che emerge dai lunghi interrogatori a cui quest’ultima quasi quotidianamente veniva sottoposta, con l’accusa di avvelenamenti, infanticidi ed esecrabili messe nere. I due autori, schivando ogni riferimento troppo esplicito alla “congiura dei veleni” e alle sue ripercussioni politiche, adottano gli ingranaggi di una pièce à machines e le comiche soluzioni di un divertissement per demistificare le arti chiromantiche e dissolvere il velo dell’ignoranza e la pubblica credulità. Giochi di specchi, ingegnosi trucchi e apparizioni di spazi illusori, spacciati come frutto di un sapere sovrannaturale, erano stati accuratamente studiati per trasformare in spettacolo vicende di assai più allarmante attualità. Divertito, il pubblico poté assistere a un lucroso mercato d’ingannevoli illusioni, e nell’accelerato happy end alla demistificazione di quel mondo di apparenze che è l’essenza stessa del teatro.
Riscrivere, prolungare, variare, aggiungere, innestare… sono tante le operazioni che si possono compiere per prolungare il piacere che ha saputo dare la lettura di un testo. Si ritrovano tutte in questi dodici racconti che hanno origine da opere famose. Ognuno di questi scrittori è prima di tutto un lettore, avido di continuare, desideroso che il libro che l’ha ammaliato non finisca con l’ultima pagina. Quante volte abbiamo pensato: peccato che sia finito? In questo volumetto chi ha amato Moby Dick, Il Barone rampante, Alla Ricerca del tempo perduto o Bella del Signore e altri ha l’occasione di soddisfare questo desiderio.
Paolo Albani, scrittore, poeta visivo e performer. Membro dell’Oplepo dal 1996. Raffaele Aragona, ingegnere, ha insegnato Tecnica delle Costruzioni all’Università Federico II di Napoli. È membro fondatore dell’Oplepo (Capri, 1990). Maurizio Corrado, architetto, saggista, romanziere e teatrante. Vive a Bologna e in treno. Daniela Fabrizi, psicologa e copywriter, membro dell’Oplepo dal 2008. Silvia Fontana vive su un’isola e non ha ancora smesso di studiare. Maddalena Mazzocut-Mis, docente di Estetica e di Estetica della musica e dello spettacolo all’Università degli Studi di Milano. Drammaturga affermata, le sue opere sono state rappresentate nei maggiori teatri italiani e in Francia. Paolo Pergola, biologo marino, vivrebbe su un’isola del Mediterraneo se non fosse sempre in viaggio. Membro dell’Oplepo dal 2012. Giancarlo Peris, insegnante di metrica e sportivo (ultimo tedoforo alle Olimpiadi di Roma, 1960). Aldo Spinelli, artista e inventore di giochi, (primo) membro di Oplepo dal 1990 e corrispondente italiano di Oupeinpo. Stefano Tonietto, ex-poeta cavalleresco (Olimpio da Vetrego, 2010) e letterato potenziale (Letteratura latina inesistente, 2017). Giuseppe Varaldo, medico dermatologo, enigmista e ludolinguista, è membro dell’Oplepo dal 1992.
Prefazione e cura di Annamaria Laserra – Traduzione di Giancarlo Peris
CON TESTO FRANCESE A FRONTE – Portato in scena il 15 febbraio 1665, il Dom Juan di Molière rimase in cartellone solo pochi giorni a causa della violenta reazione di una parte della corte, che lo considerò lesivo della morale pubblica, e non apprezzò che fosse scritto in prosa. La pièce ritornò solo dodici anni dopo, ma in versi, e con sostanziali modifiche nei contenuti. Portava il nome di Molière, sicché alcuni la considerarono postuma. Si trattava invece di una riscrittura di Thomas Corneille, fratello minore di Pierre, cui Armande Béjart aveva affidato il compito di rendere accettabile l’opera del suo defunto marito a chi l’aveva a suo tempo criticata nella forma e – soprattutto – nei contenuti. Per una serie di oscure circostanze, della versione originale non rimase più traccia in Francia. Venne sostituita da quella di Thomas Corneille, che riscosse un grandissimo successo. Solo due secoli dopo, grazie al ritrovamento di una copia stampata ad Amsterdam, il Dom Juan di Molière potè tornare finalmente in scena, e fu a quel punto il riadattamento in versi a essere accantonato, anche con un poco dissimulato disprezzo: quello che viene tributato a chi si presti a modificare un capolavoro. Eppure, a voler leggere questa versione corneliana da una diversa angolatura, non si può fare a meno di riconoscerle un indubbio interesse documentario (oltre che una non trascurabile perizia stilistica): intervenendo su quelle che vennero considerate le pecche del Dom Juan molieriano, gli interventi di Thomas Corneille fanno infatti riemergere le ragioni sociologiche, etiche e ideologiche che motivarono la condanna della pièce originaria. Il maggiore interesse di questa riscrittura consiste allora, paradossalmente, proprio nell’angolazione delle sue aggiunte, delle sue modifiche e dei suoi tagli, poiché ognuno di essi apre spiragli sulle preoccupazioni culturali e morali del Secolo d’oro e rende ancora percepibile il tono astioso di chi causò il ritiro del Dom Juan dalla scena. Apre cioè un suggestivo spaccato non solo sulla cabala scatenata contro Molière dal partito dei devoti, ma anche sui non semplici rapporti tra teatro e società nella Francia del Re Sole.
A cura di Hervé-Thomas Campangne – Traduzione di Giancarlo Peris
Contemporaneo e rivale di Molière, Montfleury è noto soprattutto per le sue commedie. Con la tragicommedia Trasibule, messa in scena nel 1663 ed eccentrica rispetto alla sua produzione abituale, il drammaturgo offre al pubblico dell’Hôtel de Bourgogne un lavoro di altro genere, la cui trama ricorda stranamente quella dell’Hamlet di Shakespeare: dopo aver fatto assassinare un monarca, un usurpatore aspira a sposarne la consorte. Di ritorno da un’assenza di due anni, Trasibule, legittimo erede del regno, simula la pazzia per sfuggire alla morte e preparare una terribile vendetta. L’interrogativo che sorge è dunque: Montfleury avrebbe imitato Shakespeare? Si potrebbe certo pensarlo se l’ipotesi non contraddicesse le ricerche degli storici della letteratura, secondo i quali il drammaturgo di Stratford-upon-Avon è rimasto sconosciuto in Francia fino al 1675. Ma come dimostrato nell’introduzione di Hervé-Thomas Campangne, le similitudini che avvicinano Trasibule ad Hamlet si spiegano attraverso il ricorso di Shakespeare e di Montfleury a una fonte comune. Hervé-Thomas Campangne è docente di letteratura francese presso la University of Maryland in College Park (USA). Specialista del XVI e XVII secolo, è autore del volume Mythologie et Rhétorique aux XVe et XVIe siècles, en France (Honoré Champion, 1996), dell’edizione critica del Cinquiesme Tome des Histoires tragiques de François de Belleforest (Droz, 2013), oltre che di numerosi saggi dedicati ad argomenti del Rinascimento e della letteratura classica, pubblicati nella “Revue d’Histoire Littéraire de la France”, in “XVIIe siècle”, “Studi Francesi”, “La Nouvelle Revue du XVIe siècle”, “Renaissance Quarterly”, e in “The Sixteenth Century Journal”. Giancarlo Peris, insegnante di italiano e storia, ha coniugato il suo interesse per la letteratura con quello per lo sport. Si è dedicato allo studio degli aspetti teorici delle forme metriche e alla composizione dei versi, e attualmente organizza corsi di metrica e di composizione poetica. Sul fronte sportivo, ha praticato l’atletica leggera a livello agonistico ed è stato allenatore nella disciplina. Nel 1960 ha acceso il tripode olimpico nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Roma.
La storia si svolge attorno al 1720. Narra le vicissitudini del nobile cavaliere des Grieux e di Manon Lescaut. Lui ha 17 anni, lei 16. Travolto dal fascino della ragazza, des Grieux fugge con lei a Parigi, rinunciando alla ricchezza e alla dignità della sua famiglia. Per soddisfare le esigenze di Manon, scopre di poter guadagnare molto barando al gioco. Il denaro facile si perde altrettanto facilmente, e con esso des Grieux perde più volte anche Manon, che lo abbandona per uomini più ricchi. La loro vicenda giunge a una svolta decisiva quando si scontrano con un uomo molto potente: il signor di G… M… Costui non esita a farli imprigionare e, successivamente, fa condannare Manon alla deportazione nelle colonie francesi d’America. Il giovane, disperato e fedele, la segue. A New Orleans i due vivono serenamente fino a quando il governatore della Luisiana non promette in sposa Manon a suo nipote. Des Grieux sfida a duello il rivale e, pensando di averlo ucciso, fugge con Manon, sperando di raggiungere un insediamento inglese. Ma la giovane non resiste alla fatica e, per gli stenti, muore. Fin qui la vicenda conosciuta. Ma la storia della signorina Lescaut non si conclude con la sua morte. Intorno al 1760 venne pubblicata anonima una Suite de l’Histoire du Chevalier des Grieux et de Manon Lescaut, che questo volume restituisce al lettore dopo oltre due secoli di oblio. L’autore immagina che Manon non fosse realmente morta. Risvegliatasi e liberatasi a fatica dello strato di terra che la ricopriva, le viene fatto credere che il cavaliere si sia voluto sbarazzare di lei. Nuove avventure e colpi di scena non smetteranno di stupire il lettore, che scoprirà in queste pagine una nuova Manon.
Il volume pone al centro del discorso la scrittura autobiografica e le sue forme plurali, tema a lungo rimosso, senza la pretesa di stabilire simmetrie tra il biografico e il biologico, né di fare del biografico una via d’accesso privilegiata all’opera. In un itinerario in cui vengono analizzati epistolari e carteggi, diari e autobiografie, blog e interviste, ma anche testamenti e lasciti a futura memoria, l’autore, in dialogo con Domenico Morelli e Salvador Dalí, con Frida Kahlo, Piero Manzoni e Ai Weiwei, con Giorgio de Chirico, Francis Bacon e Piero Gilardi, con Costantin Brâncuși e Marina Abramović, riflette, in particolare, sull’autobiografia quale spazio di processi di soggettivazione e sulla funzione dell’autore.
(a cura di Barbara Bruni – Premessa di Valerio Viviani) – Gobbo, deforme, assassino assetato di potere… Pare che nella storia d’Inghilterra non ci sia stato re più malvagio di Riccardo III di York: ecco almeno l’immagine ufficiale tratteggiata da storici del calibro di Thomas More, Francis Bacon, David Hume, per citare solo i più noti, e scolpita nella memoria collettiva grazie al genio drammaturgico di Shakespeare. Ma la raffigurazione tradizionale lascia spazio a troppi dubbi, a cominciare dal fatto che Thomas More e Shakespeare vissero sotto i Tudor, stirpe che godeva di scarso lustro agli occhi della gente e che, come tale, poteva trarre la propria legittimazione anche attraverso la denigrazione dell’ultimo erede dei ben più regali Plantageneti. Questo è solo uno dei sospetti che spingono Horace Walpole, poliedrico intellettuale settecentesco famoso per essere il padre del romanzo gotico, a riconsiderare la vicenda dopo avere riflettuto sulle tante incongruenze della versione canonica. Ne nasce così un trattato che, ridiscutendo l’approccio storiografico nei confronti del caso specifico di Riccardo, finisce per estendere la propria indagine ai meccanismi intrinseci alla narrazione degli eventi in senso lato, e a quanto questa sia legata a fattori estranei all’oggettività che dovrebbe essere caratteristica di ogni investigazione storica. Probabilmente non sapremo mai se Riccardo III si sia veramente macchiato dei tanti omicidi attribuitigli. Di fatto, la lettura dell’opera di Walpole ci porta a concordare con un’altra celebre autrice inglese, Jane Austen, che scrisse: “questo sovrano è stato generalmente trattato in modo molto severo dagli storici […] Innocente o colpevole che fosse, non regnò in pace a lungo, perché Enrico Tudor Conte di Richmond, da quel farabutto che era, fece un gran trambusto per prendersi la Corona”.